Ma il femminismo stesso pare assumere una posizione per certi versi ambigua, configurandosi tanto come movimento di ricerca trasgressivo, tendente a spezzare l’alternativa fra assimilazione emancipatoria e specificità subalterna, quanto come soggetto di emancipazione, che rivendica e arriva ad occupare uno spazio proprio sulla scena pubblica. Il femminismo pare allora promuovere ciò che in un noto documento dell’epoca alcune femministe milanesi descrivono come «emancipazione aggiuntiva», difficilmente conciliabile con la riaffermazione dell’alterità femminile. Preso fra espressione della diversità e promozione dell’emancipazione, il femminismo riflette l’ambivalenza delle politiche istituzionali, le quali hanno lungamente coniugato l’affermazione dell’uguaglianza delle donne con politiche tendenti a confermarne la specificità. Nel secondo dopo guerra si intrecciano, infatti, nelle norme che regolano il diritto di famiglia, il mercato del lavoro o l’accesso all’istruzione interventi legislativi e amministrativi tendenti ora a consolidare, ora invece a minare, il nesso fra sesso e genere, fra appartenenza biologica e posizione sociale. Questa ambivalenza si manifesta inoltre anche a livello dell’organizzazione sociale, avendo le politiche istituzionali per un verso promosso l’ingresso massiccio delle donne nelle sfere della vita pubblica, mentre, per l’altro, ne canalizzavano la partecipazione in comparti specifici nel sistema di istruzione o del mercato del lavoro. Tra sesso e genere, di Yasmine Ergas, in “Memoria, rivista di storia delle donne”, 1987.

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