C'è da dire che il pazzo è il cliente ideale del fotografo. (…) Bugiarda per vocazione, convenzionale per obbligo, la fotografia per assurdo guadagnò la sua libertà nel luogo dell'assoluta illibertà. II paradosso si riallineò presto. All'alba del Novecento, con l'affermarsi della moderna psichiatria, la fiducia nella diagnosi visuale della malattia mentale andò rapidamente in crisi. L'inconscio, il subconscio, non impressionano le lastre ai sali d'argento. Ma la fotografia non uscì dalle mura dei manicomi, cambiò semplicemente mestiere: da aiuto medico a sorvegliante. Traslocò dall'ambulatorio alla portineria. I degenti venivano fotografati non più nella libera, perfino anarchica espressione della loro follia, ma nella razionalità panottica della posa frontale, che omologava ogni individualità nel tipo universale del Pazzo, icona della nostra cattiva coscienza. Spillata sulla cartella clinica, la fotografia del malato non era più la sua radiografia mentale, ma un attrezzo tecnico per il riconoscimento rapido. Aprì la strada, assieme alla cugina fotografia poliziesca, al moderno documento d'identità. Può essere spiacevole saperlo, ma la foto che ci guarda dalla nostra patente è la foto di un pazzo: quantomeno, la sua nipote. La verità nelle facce dei matti da fotografare.
Michele Smargiassi, La Repubblica, Novembre 2005 |