SE L'ARTE INTERROGA LA STORIA

di Carla Subrizi (ottobre 2007)

 

Questa giornata dal titolo Se l'arte interroga la storia , si propone come una riflessione a margine del progetto www.mappadiroma.it , realizzato, per la Fondazione Baruchello nel 2007, da Rogelio López Cuenca, insieme a un gruppo di giovani artisti, studiosi e curatori d'arte. La lettera che inviai a giugno a Silvia Bordini, Tito Marci, Luisa Valeriani e Franco Speroni e che avevo intitolato La finzione del passato e il gioco sapiente della storia (riprendendo un'affermazione   di Michel de Certeau dal suo La scrittura della storia ) può essere considerata   come una sintesi delle principali premesse del progetto. In occasione   di questo ulteriore appuntamento ho tuttavia messo insieme qualche altra riflessione sul rapporto arte e uso della storia.

Prima di tutto perché nel titolo si legge “se l'arte interroga la storia”? Di quale interrogazione si tratta? L'arte è storicizzata, esiste una storia dell'arte ma in questo caso è stata l'arte invece a indagare su una pratica di considerare e archiviare i fatti e i documenti. Gli anni Settanta sono stati anni difficili; la difficoltà era nell'essere anni non soliti, in cui le forme di lotta e di aperta denuncia coinvolgevano migliaia di soggetti. La storia ha nel tempo circoscritto quel periodo, durato non uno ma dieci anni, dal 1968 circa, e lo ha nominato (“anni di piombo” ad esempio)   ponendolo così in uno degli ”scaffali” dove gli eventi perdono la vitalità,   diventando   simulacri di se stessi. L'arte allora, negli anni Settanta, sembrava essere meno interessante di quanto era invece successo negli anni Sessanta. Sembrava che tutta la sperimentazione, l'innovazione, il nuovo fossero avvenuti in quel precedente decennio. In effetti gli anni Settanta avevano da scontare prima di tutto questa paternità (l'inizio delle rotture delle seconde avanguardie) ma anche dovevano confrontarsi con quanto stava diventando sempre più forte e eclatante: una voglia di reagire a tanta sperimentazione, per riportare l'arte, ovvero il mercato, il sistema, nei più precisi confini dell'oggetto, della superficie dipinta, dell'assenza da contenuti troppo “concettuali” o “performativi”. Tuttavia questa duplice fisionomia del decennio Settanta, non era pacifica e produceva urti e frizioni dai quali sono nati poi i successivi ritorni da una parte al tradizionale e sicuro “pittoricismo” dall'altra a sperimentazioni convinte anche della pittura, dell'azione, del concetto, ormai privati dei limiti che tendenze e movimenti avevano a questi messo. L'arte degli anni Settanta era diventata meno definibile e classificabile; si facevano activity, esperimenti linguistici senza precedenti; il video acquisiva una sua importante fisionomia e il corpo era al centro di una messa in gioco di valori e ideali femminili   e “femministi”. C'erano le filosofie femministe. Nel 1970 c'era stato il manifesto di Rivolta femminile , la cui autrice era Carla Lonzi.

         

La   storia di queste tendenze, di queste rivolte linguistiche che mettevano in questione il chi parla il linguaggio, ovvero il soggetto centrato e autoreferenziale, assumeva l'uso del corpo, del gesto, dell'azione come nuova potenzialità per indagare o individuare nuove forme di identità e non soltanto come diversa affermazione delle sempre medesime soggettività.

Con il passare del tempo (qualche anno in realtà) la storia di queste tendenze estreme si è rovesciata in una arte che indagava la storia stessa, usandola come un materiale da sperimentare. L'arte arrivava al reale direttamente e si appropriava dei fatti, dei documenti sena mediazioni già fatte. L'arte diventava denuncia, attenta osservazione dei mali e contraddizioni sociali; diventava una pratica attiva nei confronti della condizione femminile, della guerra, delle strategie della produzione   e dell'ideologia. Martha Rosler negli anni Settanta con Bringing the war home, lavorava sulle contraddizioni delle società del capitalismo maturo.

 
M. Rosler, Bringing the war home , 1969-1972

L'arte rifiutava il suo ruolo appartato, diventava procedura per osservare e fare ipotesi nel reale; usava la sua caratteristica di poter produrre metafore, contraddizioni, allegorie per spostare i punti di vista e mostrare i fatti sotto altre prospettive, talvolta con ironia, senza essere ideologica, ma politica . Così l'arte ha sempre più confuso la sua azione in un agire quotidiano, poco distante dalla vita di ogni giorno. Diventava   performativa (che è altro dalla performance) e   azione linguistica aperta all'imprevedibilità della variazione in corso d'opera .   L'arte poteva oramai lavorare sulla/con   la parola, su dinamiche relazionali, usava il solo dialogo e l'inchiesta come procedure che rimaterializzavano il linguaggio, dopo anni di smaterializzazione dell'oggetto verso la talvolta arida supremazia del concetto. Dire   “se” l'arte interroga la storia pone dunque la questione dell'indagine non degli   effetti ma dei processi, dei meccanismi attraverso i quali la storia si produce e produce a sua volta: ideologia, riferimenti, falsificazione.    L'arte ha posto questo problema: non dipingeva o scolpiva più la guerra, ad esempio,   ma la “portava” negli interni domestici, per aprire, dal suo punto di vista,   una contraddizione nella società dello spettacolo e degli “uomini a una dimensione”.  

Bisogna dunque prima precisare cosa si intende qui con storia. Non c'è alcun rifiuto della storia ma soltanto una necessità di capire come e cosa produce, di che cosa è la storia, da quale prospettiva parte, dove sceglie di far iniziare un determinato percorso.     La storia a cui ci siamo riferiti con questo lavoro, si è già detto,   è la storia di fatti avvenuti negli anni Settanta, una storia tutta da fare, anche se molti sono i documenti, le storie, i racconti che oramai hanno tentato una, anche se non esaustiva, efficace ricostruzione (N. Balestrini e P. Moroni, L'orda d'oro , in particolare).   Il problema che si poneva Rogelio andando a lavorare con questi anni di lotte, di rivolta creativa, di autorganizzazione, di ricerca di autonomia, di movimenti politici, tra controcultura e politica non era quello di entrare nei fatti come avrebbe potuto fare uno storico o un politico, ma di considerare il lavoro sulle forme “apparenti” di quei fatti, quanto le restituisce nell'opinione comune e si radica nell'immaginario collettivo, quanto e cosa   si tramanda (si trasmette), cosa   produce lo svuotamento degli stessi   fatti e eventi per lasciare soltanto gli involucri di essi.    Andando a cercare i materiali, i documenti negli   archivi (anche l'archivio della Fondazione Baruchello, quello di Nanni Balestrino), ascoltando molte testimonianze, la domanda che nasceva riguardava il perché della riduzione a “icona” di quei fatti, della creazione di “immagini” simbolo o di stereotipi per sintetizzare (e annullare) il portato dei fatti. Questo meccanismo che seleziona, monumentalizza e celebra da una parte, accantona e marginalizza dall'altra, è stato il punto centrale di questo lavoro di Rogelio López Cuenca.     Questo lavoro ci ha messo dinanzi ad alcune questioni importanti, a cui alcuni di noi erano già attenti. Il lavoro sulla storia degli anni Settanta è così divenuto non soltanto una “mappa” ma anche una indagine sui sistemi attraverso i quali i fatti sono stati   proposti   allora o sono riproposti oggi. Abbiamo così riflettuto con Rogelio su queste modalità, sui messaggi che emergevano dai quotidiani di allora, dalle riviste, dalla stampa più in generale. La morte di Moro, le manifestazioni nelle strade non volevano soltanto raccontare il fatto in se stesso. Vedevamo che nei quotidiani la fotografia del cadavere di Moro nella Renault 4, era vicino alle immagini di manifestanti. La violenza e la morte, il considerato “terrorismo” di allora e la rabbia giovanile, le “rivoluzioni” sessuali e l'osceno o l'immorale    dialogavano tra loro con una superficialità iconica o verbale che riduceva la sostanza facendo apparire soltanto vuoti involucri privati del loro intimo spessore. Non è mai la storia ma una storia che nomina alcuni fatti “terrorismo”, “violenza”, “paura”, ecc. La storia, la sua pratica e gli oggetti che definisce, è sempre “situata” (De Certeau, p. 26) e produce ideologia, sapere. Quindi la storia non è un territorio neutro né nelle pratiche che usa né negli effetti che produce.

Il   lavoro di Rogelio non è stato dunque un lavoro storico, né sociologico né   politico. La disciplinarità non era necessaria e anzi avrebbe prodotto ostacoli (con i confini che le discipline pongono a difesa dei loro interni specifici); è stata usata invece una prospettiva interdisciplinare che ha attraversato campi diversi (la pubblicità, la filosofia, le questioni riguardanti il lavoro, la donna, la famiglia, la casa, la canzone di quegli anni, ecc.) con un   punto di vista speciale: quello dell'arte con le   sue intuizioni, la sperimentazione dell'inedito, l'ipotesi   e l'esercizio dell'immaginazione, la capacità di mettere in contraddizione e di far nascere la domanda.     E' stato dunque il lavoro di un   artista che, artisticamente ,     è arrivato all'idea della mappa , la quale   benché presentata a giugno (nella giornata al MACRO), ha già subìto molte trasformazioni e quasi sicuramente, molte ancora ne attraverserà. Quindi è un lavoro che ha raggiunto un esito ma non definitivo. La   mappa è un processo in atto piuttosto che una formalizzazione definita da studiare e interpretare.

Ogni artista, fotografo, giovane studioso,che ha partecipato al Seminario di Rogelio   López Cuenca,   ha lavorato ad una sezione tra le molte che si era deciso di affrontare; periferie, manifestazioni, scontri e morti, Aldo Moro, Pasolini, Lama all'università, la televisione a colori, il femminismo, il movimento politico, l'estate romana, lo stadio e gli ultrà, le stragi di stato, ecc.     La ricerca dei materiali è stata lunga e talvolta difficile, non per la ricerca ma per poi decidere come quei materiali sarebbero stati presentati, con quale ordine, con quale logica, con quali obiettivi. Erano inoltre quelli giusti, i più espliciti, c'erano forse altri documenti che non erano stati ancora trovati? Sembrava che non fosse però questo il problema. La questione principale si poneva proprio   nel lavoro di ricerca, quando questo riportava indietro nel tempo, dentro a trasversalità oramai rese lineari (cause e effetti). Il modo per restituire vitalità a quei fatti, agli argomenti trovati è venuto allora dal metterli a confronto con l'oggi, per vedere non dal punto di vista attuale cosa erano stati gli anni Settanta, ma per capire cosa era rimasto di essi, cosa si era trasformato o cosa era stato trasmesso in altre situazioni; indagando anche sui modi e processi di trasmissione visiva e verbale dei fatti. Ancora meglio, cosa si era trasformato nel tempo restando però simile nell'intensità e nelle potenzialità delle motivazioni e degli intenti. Così sotto la icona di “Piazza Belli” a Trastevere, si vede una folla che passa senza neanche sapere che al loro fianco c'è una lapide che ricorda la scomparsa di Giorgiana Masi,   giovane studentessa uccisa in una manifestazione nel maggio ‘77. Le stragi di stato sono invece direttamente riportate a una immagine attuale: folle che camminano nelle strade, “sangue nelle vene della città”, apparentemente prese nelle loro attività, ma in realtà potenziale oggetto, in ogni momento, di quegli attacchi che dall' “11 settembre” (anche su questa data ci sarebbe da riflettere, divenuta un inizio e un riferimento di una nuova svolta a livello globale) sembrano oramai gravitare su qualsiasi parte del mondo. Le “torri gemelle” e la cupola di S. Pietro, New York e Roma (come Madrid e Londra): ovunque c'è una minaccia, la paura di diventare vittima. In realtà il “terrorismo”, come è stato nominato questo attacco al cuore dell'economia e della politica mondiali, non si sa (da quanto si legge e ascolta dai media)   quale provenienza abbia e arriva a   confondersi   con lo “Stato” stesso che lo combatte e   che per arginarlo compie stragi altrettanto gravi.

Il lavoro per www.mappadiroma.it è stato dunque un lavoro che ci ha posto molti problemi, perché era l'arte a impugnare questa volta i fatti e il punto di vista artistico poteva diventare una procedura di lettura, di osservazione critica e interrogativa. L'arte non può arrivare a costruzioni o ricostruzioni definitive.   Ma può guardare, essere uno esercizio dello sguardo e dell'immaginazione, può riabilitare l'utopia all'interno di una necessità di cambiamento e trasformazione individuali e collettive. Già il fatto che una mappa apparentemente per turisti si rivela poi non come una   solita mappa ma come una piattaforma di fatti, di contraddizioni, e confronti lasciati aperti, di percorsi incrociati, di racconti, testimonianze, di documenti disposti secondo associazioni, somiglianze e identità, ma anche differenze e contrasti,   indica non un lavoro artistico definito e compiuto ma una pratica dell'arte ai confini di molti ambiti, sperimentale. La sperimentazione è stata anche nel provare a costruire una sorta di montaggio di materiali e punti di partenza, una specie di archivio, all'interno del quale le citazioni, gli stralci, le fotografie, funzionassero da dispositivi per riflettere, immaginare altre narrazioni, altre storie. La prospettiva che si è così messa insieme, in questa “mappa” è una prospettiva non unitaria e autoriale, ma condivisa. E' nata dall'incontro di un artista, di curatori, di testimonianze dirette che sono state richieste, di quanto un gruppo di giovani ha cercato attraverso non l'esperienza diretta ma “straniera” ovvero nata a distanza, avendo solo accesso a documenti e archivi o potendo conoscere a partire da testimonianze scritte o orali.

Se dunque l'arte ha interrogato la storia lo ha fatto non sostituendosi alle pratiche convenzionali di osservazione e ricostruzione storica dei fatti, ma ipotizzando un punto di vista trasversale, all'incrocio di esperienze diverse, plurale. Una ipotesi,   dunque, per costruire   non una sola storia ma più storie , parallele, trasversali, che riaprano il dubbio e la domanda, l'ipotesi e nuovi scenari per l'immaginazione,   l'immaginario e l'azione oggi.  

Indicazioni bibliografiche (selezione)

N. Balestrini e P. Moroni, L'orda d'oro , Feltrinelli, Milano 1988.

A. Cavarero, F. Restaino, Le filosofie femministe , Mondadori, Milano 2002.

G. C. Spivak, Critica della ragione postcoloniale , (1999) Meltemi, Roma 2004.

M. Rosler, Decoys and Disruptions , October Book, New York 2004.

M. de Certeau, La scrittura della storia , (1975) Jaca Book, Milano 2006.

M.   Foucault, Il discorso, la storia, la verità , Einaudi, Milano 1994.